L’ultimo saluto a Enzo Bearzot (gallery)

Foto: AP/LaPresse

Una cerimonia semplice ha accompagnato l’addio di Enzo Bearzot, morto un paio di giorni fa dopo una lunga malattia. Semplice la cerimonia, come semplice era l’uomo, uno che non si è mai comportato da primo della classe, pur essendo consapevole dell’immenso obiettivo raggiunto.

Poteva prendersene di rivincite il Vecio all’indomani di quell’11 luglio del 1982, allorché la sua nazionale sollevava la Coppa del Mondo nel catino infernale del Santiago Bernabeu, dopo che critici, stampa, tifosi si erano accaniti contro quel gruppo. Ma Bearzot era fatto così e le sue rivincite se le è prese solo sul campo, accettando poi l’idea che in molti saltassero sul carro dei vincitori pur non avendone il diritto.

Cabrini: il naufragio del Bell’Antonio

Da un po’ di tempo il suo nome è tornato ad occupare le pagine dei giornali per una vicenda che ha ben poco a che fare con il mondo del pallone. Ma ormai calcio e spettacolo vanno a braccetto ed anche Antonio Cabrini ha voluto adeguarsi, accettando di partecipare all’Isola dei Famosi, il fortunato programma della Rai, in onda dal prossimo autunno.

Una scelta curiosa per uno come lui che ha sempre vissuto di pane e calcio, sin da quando appena diciottenne esordiva in serie B con la maglia dell’Atalanta, prima di essere notato dalla Juventus, con la quale giocherà per ben 13 stagioni. E la scelta di partire per l’Isola è figlia un po’ anche di questo suo passato, visto che gli anni regalati alla causa bianconera non sono bastati a garantirgli un futuro in società, costringendolo a guardare altrove pur di lavorare.

Volevano ex campioni e si sono lasciati scappare anche Tardelli. Guardate il Milan: Berlusconi trova sempre un posto agli ex giocatori. Io ho dato a quella maglia tredici anni di carriera, ho accettato di giocare anche quando ero infortunato e rischiavo di spaccarmi per sempre. Si vede che la riconoscenza a Torino non esiste. Se il calcio mi chiude le porte, ne apro altre io.

Paolo Rossi: l’eroe Mundial!

Nel giorno dell’attesissima Italia-Spagna, vogliamo dedicare un capitolo ad un eroe del calcio nostrano, uno di quelli che a nominarli non si può far a meno di pensare subito alla maglia azzurra: Paolo Rossi.

La speranza è che per colui che ne ha preso il posto a quasi trenta anni di distanza il destino riservi le stesse soddisfazioni.

Già, perché anche il bomber di Spagna ’82 rischiò di fallire l’appuntamento con la storia, così come sta facendo Luca Toni. A differenza del presente, però, la squadra di Bearzot venne ferocemente criticata dopo i tre pareggi che rischiarono di compromettere il cammino mondiale.

Marco Tardelli: un urlo mondiale!

Guardate l’immagine, chiudete gli occhi e tornate a quel magico 11 luglio del 1982. E adesso ditemi che cosa provate.

Personalmente non riesco a ricordare un’emozione simile (calcisticamente parlando, s’intende): brividi che scendono lungo la schiena ed una lacrima trattenuta a fatica nel ricordo di una serata unica ed indimenticabile.

Indimenticabile per me, per noi tifosi tutti, che abbiamo avuto la fortuna di assistere alla messa in onda di una pagina di storia, ma immaginate che cosa deve aver rappresentato quella serata per il ragazzo immortalato nella foto divenuta simbolo di un intero mondiale, tanto che ancora vi chiedessero chi era Tardelli, rispondereste quasi sicuramente “quello dell’urlo”.

Bruno Conti: giallorosso del secolo!

Di Bruno ce n’è uno e viene da Nettuno.

Così cantava la Curva Sud negli anni ’80 ed il Bruno della canzoncina era Conti, giallorosso doc, piccolo di statura ma immenso in campo. Di lui la leggenda racconta che lo volesse una squadra americana di baseball, ma il padre non gli permise di partire per gli States, invitandolo invece a prendere a calci un pallone sulle spiagge del litorale laziale, dove era nato.

A dieci anni Helenio Herrera lo scartò, ritenendolo troppo gracile e minuto per poter giocare a calcio, ma Brunetto non si diede per vinto e negli anni si tolse le sue belle soddisfazioni.

Giancarlo Antognoni: un campione di sfortuna!

Idolo della Fiorentina, nessuno come lui nel cuore dei tifosi viola, vera bandiera di una squadra in cui è stato spesso l’unica stella a brillare: questo era Giancarlo Antognoni, uno dei più grandi numeri 10 a cavallo tra gli anni ’70-’80.

Nils Liedholm lo volle fortissimamente alla Fiorentina, dopo averlo visto in azione a Coverciano durante gli allenamenti della nazionale juniores. 453 milioni sborsati dall’allora presidente Ugolino Ugolini per strapparlo al Torino, che aveva da tempo messo gli occhi su quel ragazzino elegante e talentuoso.

Il ragazzo che gioca guardando le stelle.

Così lo definì Vladimiro Caminiti, e l’incedere a testa alta era solo uno tanti punti di forza del giovane Antognoni, che eccelleva nel ruolo di regista grazie alla straordinaria visione di gioco, ai lanci lunghi e millimetrici, alla falcata elegante ed imperiosa. Un numero 10 che amava mettersi al servizio della squadra più che tentare la soluzione personale.

Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo!

Era l’undici luglio 1982 e l’Italia si vestiva a festa per l’ultimo capitolo dell’entusiasmante Mondiale in terra di Spagna. Nessuno ci avrebbe scommesso alla partenza dal ritiro e men che mai dopo le prime tre partite deludenti nel girone, che ci aveva messo di fronte squadre che sembravano ampiamente alla nostra portata. Polemiche a non finire, i giornali si chiedevano il motivo di certe scelte di Bearzot, che si ostinava a mandare in campo una formazione dimostratasi fin lì al di sotto delle aspettative.

Poi arrivò l’Argentina di Maradona, rispedita a casa con la coda tra le gambe, ed il Brasile dei grandi campioni, che avrebbe dovuto fare dell’Italietta un sol boccone e che invece risvegliò l’assonnato Paolo Rossi, facendolo entrare nella leggenda. Un gioco da ragazzi, la semifinale con la Polonia, battuta con due gol dello stesso Pablito, che ci lanciarono direttamente nella finale con la Germania.

Ed ora sembrava tutto facile, l’Italia non era più tanto piccola ed era consapevole della sua forza in campo, mentre da fuori nessuno più osava criticare il ct, che stava per farci vivere il sogno più bello. Ma non fu così facile, non subito almeno, perché una finale è una partita a sé e la paura di perdere può fare brutti scherzi.

Da Pelè a Bobby Moore: la scaramanzia nel calcio (capitolo secondo)

Aruna Dindane non segna più? Colpa di un maleficio! Sembra una storia di altri tempi e invece stiamo parlando di un calciatore ivoriano, attualmente in forza al Lens, che dall’ 8 dicembre scorso non riesce più a buttarla dentro, nonostante faccia il bomber di professione. Per tentare di liberarlo dall’influenza malefica di qualche marabutto, sono state sacrificate due povere pecore ed un tacchino, ma sembra che non si sia ottenuto il risultato sperato.

Lo so, viene da sorridere, ma la superstizione fa parte da sempre del mondo del calcio, anche se pochi ammettono di avere dei riti propiziatori, per attirare la fortuna ed allontanare i guai.

Ne avevamo già parlato tempo fa, ma gli episodi sono tali e tanti, che forse vale la pena dedicare un secondo capitolo all’argomento. E non aspettatevi solo nomi semi-sconosciuti tra queste righe, perché la scaramanzia non ha risparmiato nemmeno giocatori come Pelè o Bobby Moore, che certo non avevano bisogno di talismani per dimostrare il proprio valore in campo.

Italia-Brasile 3-2: la partita del secolo!

Che strani scherzi fa la memoria, quando si tratta di ricordare qualcosa di così lontano nel tempo! Di anni ne sono passati 26 ed all’epoca ero poco più di una bambina, innamorata di quel pallone che rotolava su un campo verde, di quel calcio lento e statico, che a guardarlo oggi fa veramente sorridere.

Dovrei aver dimenticato determinate immagini, sostituendole nella mente con qualcosa di più recente, con scene che nel tempo sono passate davanti ai miei occhi, regalandomi grandi emozioni. E invece ancora adesso, se mi chiedete qual è la partita che più di ogni altra è stampata nella mia memoria e nel mio cuore, non ho dubbi: Italia-Brasile 3-2! Nessuna come quella mi ha emozionato tanto, nemmeno la finale con la Germania e nemmeno la finale in Germania.
A queste ultime dedicherò dei capitoli a parte nelle prossime puntate, ma ora permettetemi di dar sfogo ai ricordi di quell’afoso pomeriggio d’estate del 1982.

Erano le 17 e 15 del 5 luglio e al Sarrià di Barcellona andava in scena la storia, anche se nessuno lo sospettava, guardando le formazioni schierate a centrocampo al momento degli inni nazionali. La “povera” Italia si apprestava ad essere l’ennesima vittima sacrificale dell’immenso Brasile, che macinava bel gioco e risultati e che poteva permettersi anche di pareggiare, per raggiungere la semifinale. L’Italia veniva invece dalla vittoria con l’Argentina, ma ancora non si era placato lo scetticismo degli addetti ai lavori, inviperiti per le deludenti prestazioni degli azzurri nel girone eliminatorio.

Santiago Bernabeu: la fabbrica dei sogni

Battiti a mille e occhi arrossati nel nominare quello stadio, che tanta fortuna portò alla causa italiana nel 1982. Era l’Italia di Zoff e Scirea, di Rossi capocannoniere e di Conti miglior giocatore del mondiale, dei baffi tagliati di Gentile e dell’urlo di Tardelli, di Bearzot e Pertini avversari a carte nel viaggio di ritorno verso casa.

Quanti ricordi legati a quello stadio, il cui nome è rimasto impresso nella memoria dei tifosi quasi fosse il dodicesimo della formazione messa in campo nella notte magica di Madrid. Ma passiamo oltre, per evitare che i ricordi ci prendano la mano e si finisca per parlare solo del trionfo mondiale e della Germania annientata, ma vi assicuro che su queste pagine ci sarà un capitolo dedicato ai ricordi ed alle emozioni di quella sera.

Ripartiamo dal titolo e dalla “fabbrica dei sogni”, definizione azzeccata di Alfredo Di Stefano, che al Bernabeu aveva alzato diversi trofei negli anni d’oro del Real.

Inzaghi, Sentimenti, Maradona: storie di calcio e di fratelli

Storie di fratelli calciatori e subito la mente va ai cinque Sentimenti che negli anni ’40-’50 facevano impazzire gli addetti ai lavori, costretti a “numerarli” per poterli riconoscere facilmente. E così Ennio divenne Sentimenti I, Arnaldo, Sentimenti II, Vittorio, detto Ciccio, Sentimenti III, Lucidio, detto Cochi, il più famoso di tutti, portiere indimenticato di Juventus e Lazio, Sentimenti IV, e Primo che a dispetto del suo nome divenne Sentimenti V.

Cinque fratelli, tutti calciatori e tutti di grande livello, un vero record per il calcio mondiale, seppure si faccia riferimento ad un’epoca in cui forse era più facile che il primo facesse da apripista per l’arrivo degli altri. Mai più si ripetè una favola simile, ma il calcio ci ha regalato negli anni altre coppie di fratelli arrivati a buoni livelli, a volte addirittura nella stessa squadra.

E’ il caso dei gemelli Filippini, Emanuele ed Antonio, che tanto bene hanno fatto giocando per anni soprattutto con la maglia del Brescia, ma anche dei gemelli Zenoni, frutto del vivaio dell’Atalanta.

Dino Zoff: il numero 1 assoluto!

Mito: termine usato spesso a sproposito nel mondo del calcio per definire questo o quel calciatore che ci sa fare un po’ più degli altri con il pallone tra i piedi. Ma il titolo di mito bisogna guadagnarselo sul campo e nessuno come lui è riuscito così bene nell’intento di restare stampato nalla memoria dei tifosi.

Dino Zoff, classe 1942, interprete di un calcio in continua evoluzione, attraversato da decenni di gloriosa carriera. In pochi avrebbero scommesso su di lui, su quel ragazzino esile, che per mantenersi faceva il meccanico e giocava per puro diletto. Lo scartarono Juventus ed Inter, giunte fino in Friuli per osservare questo portierino in azione, ma l’occasione di riscatto gliela offrì l’Udinese, facendolo esordire giovanissimo in serie A.

Inizio in salita per lui, con 5 gol beccati all’esordio contro la Fiorentina ed un pubblico ostile pronto a sottolineare qualunque suo errore. Poi il Mantova per 4 anni e finalmente Napoli, città rumorosa, aperta, molto lontana da quel suo carattere chiuso e serioso. Eppure fu amore a prima vista e Dino diventò in fretta uno degli idoli di quella squadra che pure vantava la presenza di campioni come Sivori e Altafini, Canè e Bianchi.

Da Tardelli a Rozzi: la scaramanzia nel calcio

Corna e cornetti, ferri di cavallo ed amuleti di ogni genere: non siamo al festival anti-jella, ma in qualunque spogliatoio di calcio che si rispetti. O credevate forse che le partite si vincano solo comprando fior di giocatori?

E allora chiedetelo ai vari protagonisti della domenica, che si esibiscono in veri e propri riti scaramantici per attirare la buona sorte. Nessuno ne parla, ma basta osservare calciatori, allenatori e persino presidenti, per rendersi conto che certi gesti ripetuti all’infinito altro non sono che pura superstizione.

Dalla barba incolta di Amadei, alla scarpa sinistra di Zambrotta infilata sempre per prima, dall’abitudine di Sivori e Maradona di dirigersi palla al piede verso la porta, prima dell’inizio della partita, per poi calciare senza portiere, ai due fili d’erba strappati e poi masticati da Nicola Caccia: sono solo alcuni dei riti che i calciatori non dimenticherebbero mai di compiere.