Tutti vogliono la Juve

Sarà il fascino della Vecchia Signora, sarà il mezzo miracolo che ha portato la squadra dalla serie B alla Champions League nell’arco di un anno, o forse il rinnovato entusiasmo

Liam Brady: un gentleman alla corte della Vecchia Signora

Era il 1980 e l’Italia ricominciava a parlare straniero, dopo anni di strenuo nazionalismo. La Juve tentò di arrivare a Diego Armando Maradona, intoccabile, inavvicinabile, ed il viaggio in Argentina di Boniperti si rivelò vano. La scelta cadde dunque su Liam Brady, irlandese dell’Arsenal, che tanto bene aveva fatto in terra inglese, tanto che il suo presidente tentò in tutti i modi di trattenerlo.

Sette stagioni con i Gunners, impreziosite dalla conquista nel 1979 della Coppa d’Inghilterra che gli valse, a livello personale, l’elezione a giocatore dell’anno. Ma il richiamo della Vecchia Signora era troppo ghiotto da rifiutare ed il 31 luglio del 1980 Liam sbarcò all’aeroporto di Caselle, pronto per la nuova avventura.

In panchina c’era Trapattoni a guidare una squadra di campioni affermati e di giovani promesse. Rossi, Bettega, Cabrini, Tardelli, Furino, Fanna: sono solo alcuni dei nomi della Juventus di quegli anni, ma, nonostante la fama dei suoi compagni di squadra, Brady riuscì ad inserirsi in fretta.

Torino-Juventus 3-2: rimonta granata in 124 secondi!

Nel calcio vince il più forte. Quasi sempre, almeno. Ma ci sono delle occasioni particolari in cui non basta avere in campo sei Campioni del Mondo, non basta poter contare su un duo di fuoriclasse stranieri, non basta chiamarsi Juventus e giocare contro una meteora.

Era il 27 marzo 1983 ed il calendario proponeva il derby della Mole, con la Juventus all’inseguimento della Roma prima in classifica ed il Toro senza grandi ambizioni. Era l’anno che seguiva i Mondiali di Spagna, vinti dall’Italia per 6/11 bianconera: un vero vanto per lo squadrone di Trapattoni ulteriormente rinforzato con gli innesti di Platini e Boniek. Il sempreverde Bettega ancora dava il suo contributo, nonostante l’età, ed a centrocampo Massimo Bonini garantiva qualità e quantità.

Il Toro era invece tutto muscoli e cuore, quel cuore che è sempre stato caratteristica fondamentale per i colori granata, specie se si trattava di metterlo in campo contro i rivali storici. Nel suo piccolo anche il Torino era Campione del Mondo, avendo tra le sue fila Beppe Dossena, numero 10 azzurro nei Mondiali di Spagna, anche se durante la competizione non ebbe modo di mettersi in mostra. Ma la Juve era superiore in tutto rispetto a quel Torino, che poteva sperare solo di limitare i danni.

Cesare Prandelli concede il bis: miglior allenatore

Poteva vincerlo Mancini, tecnico dell’Inter dello scudetto finalmente conquistato sul campo, a quasi vent’anni di distanza da quello lontanissimo del 1989, poteva vincerlo Ancelotti, allenatore del Milan dei miracoli campione d’Europa e del Mondo, e invece il premio come miglior allenatore è finito per il secondo anno consecutivo nelle mani di Cesare Prandelli.

La soddisfazione poi è doppia se si considera che a votare non erano i giornalisti che, senza offesa per nessuno, potrebbero non capirci granché di schemi e tattica, ma gli stessi suoi colleghi, che evidentemente ne apprezzano le doti professionali.

E Cesare di pallone ne capisce, avendo calcato per anni i campi di calcio, sin dall’esordio in C1 con la maglia della Cremonese, quando guadagnava 50.000 lire al mese: un vero tesoro per lui che, orfano di padre, doveva provvedere alla famiglia. Poi una carriera in crescendo con l’Atalanta, che lo fece esordire in serie A, prima di cederlo alla Juventus, squadra con cui vincerà praticamente tutto quello che c’era da vincere (3 scudetti, 1 Coppa dei Campioni, 1 Coppa delle Coppe, 1 Coppa Italia ed 1 Supercoppa europea). Erano anni d’oro per la Vecchia Signora, un po’ meno per lui che veniva spesso relegato in panchina, con poche possibilità di mettersi in mostra.